Dott. Giuseppe Venezia

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La disperata esigenza di colloquio in Franz Kafka

L’esigenza disperata di un colloquio si delinea, radente e incendiaria, in uno dei racconti più belli e strazianti di Franz Kafka, “Un medico condotto”.

La solitudine del medico e la sua angoscia lacerante, l’ambiente familiare che non ne riconosce il senso  e che ne accresce lo scacco e l’inutilità, fino all’oblio e all’inconcludenza dell’azione medica, questi sono gli elementi che l’autore mette in evidenza. La sfolgorante intuizione kafkiana smaschera ogni convenzione e ogni diserzione nel quotidiano e nel banale; recuperando strutture di significato (quelle dell’angoscia) profonde e abbaglianti. L’incalcolabilità e l’imprevedibilità della vita segnalano le linee tematiche del racconto che ci allontana dalla realtà e ci immette in una realtà altra abitata da figure umane che sentiamo estranee e nondimeno capaci di ridestare emozioni e angosce umanissime. Il linguaggio kafkiano è di una semplicità e di una radicalità straordinarie, che lasciano ogni volta esterrefatti e sgomenti, inserendoci nel cuore stesso delle realtà che sono in noi e fuori di noi.

Febbrilmente, in un tempo che corre velocissimo e inafferrabile, il medico giunge a casa del paziente, in un paesaggio invernale attonito e diafanizzato.

“Ma anche questo non dura che un istante perché, come se la cascina del mio paziente sorgesse immediatamente di fronte al mio portone, eccomi già arrivato; i cavalli si sono fermati, ha smesso di nevicare; chiaro di luna tutt’intorno; i genitori del paziente si precipitano fuori dalla casa, seguiti dalla sorella; mi tolgono quasi di peso dalla carrozza; non capisco nulla dai loro discorsi confusi; nella stanza del malato l’aria è quasi irrespirabile; la stufa, di cui nessuno si prende cura, fuma, spalancherò la finestra, ma prima voglio vedere il malato”.

Come appare il malato agli occhi del medico? “Magro, senza febbre, né freddo né caldo, con gli occhi vuoti, il giovane si solleva senza camicia di sotto ai piumini, mi s’attacca al collo, mi sussurra all’orecchio: ‘Dottore, lasciami morire’. Mi guardo intorno, nessuno ha udito; i genitori stanno lì protesi, e aspettano il mio responso; la sorella ha portato una sedia per la mia borsa e frugo fra i miei strumenti; il giovane dal letto, non smette di allungar le mani verso di me per ricordarmi la sua preghiera; afferro una pinzetta, la esamino alla luce della candela e la depongo di nuovo”. Il medico non constata nulla nel malato: la cosa migliore sarebbe quella di buttarlo giù dal letto; ma poi dice di essere generoso e soccorrevole verso i poveri. In connessione tematica con queste cose si ha: “Scriver ricette è facile, ma intendersi con la gente è difficile”.

Cambiano gli scenari: il medico si avvede che, nonostante tutto, il giovane è malato. È un passaggio misterioso e oscuro questo, da un’apparenza di benessere a una condizione di malattia: il segno cifrato dell’angoscia è invisibile, dell’oltre-realtà che ci circonda, si intravede in ogni testo kafkiano.

“Al lato destro, nella regione dell’anca si è aperta una ferita grande come il palmo della mano. Rosea, tutta sfumata, più scura dov’è più profonda, impallidisce agli orli, leggermente granulosa, il sangue qua e là variamente coagulato, aperta in mezzo come una miniera. Così di lontano. Da vicino appare ancora più grave”.

La ferita non c’era, o non era stata osservata dal medico: gli era sfuggita? Domande senza risposta; ma la sola cosa che conta è questa: quando la ferita si manifesta nella sua crudele e scarnificante ragione d’essere, l’ambiente familiare si arrende e si placa: la ferita (la malattia) dà un senso al medico e giustifica la sua presenza nella casa. Ma l’angoscia si accende, ardente e inarrestabile, nel pianto disperato del malato.

“Povero ragazzo, non c’è niente da fare. Ho scoperto la tua orrenda ferita: questo fiore nel tuo fianco ti porta alla morte. La famiglia è felice perché mi vede agire; la sorella lo dice alla madre, la madre al padre, il padre ad alcuni visitatori che in punta di piedi, bilanciandosi con le braccia allargate, entrano col chiaro di luna dalla porta aperta. ‘Mi salverai?’ mormora singhiozzando il fanciullo, abbagliato dalla vita che è nella ferita”.

La conclusione del racconto descrive gli orizzonti impossibili che chiudono l’azione medica in una morsa fatale: “Così è la gente del mio paese. Pretende sempre l’impossibile dal medico. Hanno perduto la vecchia fede; il parroco se ne resta a casa a sfilacciare una dopo l’altra le sue pianete ma il medico deve saper fare di tutto con la sua mano leggera di chirurgo. Bene, come volete”.

Ma non serve a nulla l’agire del medico condotto quando la malattia (la ferita) è così grave; e le ultime righe del racconto lo dicono con le parole che si fanno parabola del destino e del naufragio possibile di ogni arte medica. Il racconto, così realistico e così magico, così oscuro e così splendente, si chiude in una climax di angoscia lacerante e disossata.

“Nudo, esposto al gelo di questo secolo sciagurato, su una carrozza reale, con cavalli irreali, vado vagando pel mondo, io povero vecchio. La mia pelliccia si trascina dietro la vettura, ma io non la posso prendere, e nessuno fra la plebaglia irrequieta dei pazienti, muove un dito in mio aiuto. Sono stato ingannato! Ingannato! Se hai seguito una volta sola il suono illusorio del campanello notturno, non c’è più rimedio per te”.

Le luci e le ombre, le contraddizioni e le antinomie, le speranze e la disperazione, le possibilità e le impossibilità, i naufragi fatali e i labili trionfi, le angosce e i deliri, che contrassegnano l’essere-pazienti e l’essere-medici (psichiatri, psicoterapeuti), riemergono dal discorso elusivo e implacabile, concreto e utopico, graffiante e fantasmatico, di Franz Kafka. Non c’è arte medica, non c’è psichiatria né psicoterapia, se non in questi orizzonti tematici.

Tratto da: Franz Kafka (1992), “La Metamorfosi e tutti i racconti pubblicati in vita”, Feltrinelli, Milano.